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Abu Daoud, la mente di Monaco 1972

Abū Dāwūd, nom de guerre di Mohammad Daoud Oudeh, è stato uno dei volti più noti della galassia del terrorismo palestinese delle origini, quello, cioè, di Fatah, Olp e Settembre nero.

Nato in un giorno e in un mese sconosciuti del 1937, in quel di Siloam, Gerusalemme Est, Oudeh cresce all’interno di un contesto familiare relativamente agiato, per gli standard predominanti tra i palestinesi dell’epoca, e viene allevato alla passione per l’insegnamento. Un mestiere, quello dell’insegnante – di fisica e matematica –, che negli anni lo porta a soggiornare tra Giordania e Arabia Saudita.

Cresciuto nell’apoliticità, nel senso letterale del termine – estraneo e disinteressato alla questione palestinese e affini –, Oudeh sarebbe entrato nell’universo del terrorismo palestinese per caso e con irruenza. Nel 1967, di ritorno a Gerusalemme da un’esperienza kuwaitiana – lavoro nel Ministero di giustizia, studio di diritto all’università –, passa da testimone a vittima della Guerra dei sei giorni

Uno dei tanti sfollati della porzione orientale di Gerusalemme, conquistata dalle forze armate israeliane insieme alla Cisgiordania, Oudeh si trasferisce nella vicina Giordania. Ma qui, anziché proseguire lungo la via del diritto o dell’insegnamento, prende una decisione destinata a cambiare per sempre la sua vita: l’ingresso nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Il 1967 è l’anno della trasfigurazione, emblematizzata dall’assunzione di un nuovo nome – Abū Dāwūd –, e dell’inizio di una lunga guerra a Israele, resa possibile – si dice – da elementi nordcoreani che lo avrebbero formato, addestrato e trasformato in uno stratega di guerre irregolari, asimmetriche e non convenzionali.

Dopo tre anni di intenso addestramento, nel 1970, Abū Dāwūd esce allo scoperto nelle vesti di cofondatore di Settembre nero, un gruppo paramilitare inizialmente composto da elementi di al-Fatḥ, nato con l’obiettivo di elevare la guerra tra l’Internazionale filopalestinese e Israele. Carismatico, scaltro e ben inserito negli ambienti che contano, da Mosca ad Algeri, Abū Dāwūd riesce a costruire in breve tempo una rete di intelligence eurasiatica, un esercito altamente professionalizzato e un arsenale di dimensioni significative.

Il mondo avrebbe capito la novità rappresentata da Settembre nero l’anno successivo alla costituzione, il 1971, con l’eclatante omicidio dell’allora primo ministro giordano Wasfi Tal. Atto al quale avrebbe fatto seguito, nel 1972, uno dei più gravi attentati che siano mai stati compiuti contro degli obiettivi israeliani all’estero: il massacro delle Olimpiadi di Monaco.

I servizi segreti tedeschi, in prima linea nel monitoraggio del sottobosco neonazista, avevano captato dei segnali potenzialmente inquietanti alla vigilia della strage. Un militante neonazista, Willi Pohl, era in contatto con Abū Dāwūd. Il BfV avrebbe telegrafato la relazione in tempi non sospetti, sottolineandone la possibile pericolosità, senza che, però, fosse mai aperto un fascicolo. Di lì a breve, il 5 settembre, un commando di Settembre nero, armato da neonazisti e veterani del Terzo Reich e in odore di una Tripoli connection, avrebbe fatto irruzione nel villaggio olimpico e ucciso dodici persone, undici atleti israeliani e un poliziotto tedesco.

Prima di Monaco eravamo semplicemente dei terroristi. Dopo Monaco, perlomeno, la gente iniziò a chiedersi: “chi sono questi terroristi? Cosa vogliono?”. Prima di Monaco nessuno aveva la più pallida idea di cosa fosse la Palestina.

Abū Dāwūd, intervista all’Associated Press

Abū Dāwūd, mente del massacro di Monaco, a partire dal 6 settembre 1972 figura al primo posto nell’elenco dei ricercati del Mossad. Al potente servizio segreto per l’estero di Israele viene dato mandato di trovare – ed eliminare – pianificatori ed esecutori della strage, nel contesto della famigerata operazione Ira di Dio, e la testa di Abu Daoud ha priorità massima. 

Nella consapevolezza di dover affrontare un nemico ricco di strumenti e inventiva, per il quale i confini geografici non sono un limite, Abū Dāwūd entra in clandestinità. Trascorre un periodo nell’Europa del Patto di Varsavia, probabilmente protetto dal KGB. Viene successivamente intercettato dai servizi segreti francesi a Parigi, nel 1977, ed estradato in tempi record ad Algeri, a seguito di trattative sottobanco con Tripoli e con l’OLP, prima che la giustizia tedesca possa chiederne il trasferimento a Berlino e prima che il Mossad attivi i suoi assassini professionisti.

1 agosto 1981, il giorno del redde rationem mancato. Abū Dāwūd, a passeggio nel centro storico dell’apparentemente impermeabile Varsavia, viene raggiunto da cinque colpi di pistola. Il sicario spara da una distanza di circa due metri, mettendo a segno ogni colpo, ma il terrorista sopravvive miracolosamente. Nessuno dei proiettili, infatti, sarebbe penetrato in zone vitali.

Dopo oltre un decennio di immersione totale, forse trascorso nel più sicuro Libano – divenuto, nel frattempo, una propaggine dell’Iran khomeinista sotto il controllo di Hezbollah –, Abū Dāwūd riemerge dagli abissi nel 1993, anno della sua comparsa a Ramallah. Ma la nuova residenza dura poco: dopo aver dato alle stampe un libro autobiografico, Palestine: De Jérusalem à Munich, viene accusato dalla dirigenza OLP di aver rivelato segreti compromettenti e “invitato”, dunque, a trovare un nuovo luogo sicuro.

Mai depennato dalla kill list del Mossad, e isolato dall’Olp – intento, forse, ad offrire un olocausto sull’altare della normalizzazione costruito con gli accordi di Osolo –, Abū Dāwūd si trasferisce in Siria. Trascorre gli ultimi anni a Damasco, vivendo con una pensione erogatagli dall’Olp e arrotondando con interviste scritte e video rilasciate ai media arabi e globali.

Muore il 3 luglio 2010, a causa di un’insufficienza renale, senza avere mai espresso pentimento per Monaco ’72. Muore poco dopo aver fatto una promessa al suo acerrimo nemico, Israele, ovvero che la guerra per la liberazione della Palestina sarebbe stata portata avanti dalla sua discendenza.

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